MONOGRAFIE: NICCOLO’ FRANCO
Pochi sanno che nel Cinquecento la città di Benevento ha avuto il suo poeta “maledetto”, Niccolò Franco.
Egli nacque nel capoluogo sannita il 13 settembre 1515, da una famiglia di umili origini. Nella città natia trascorse soltanto gli anni dell’infanzia e della gioventù, in cui intraprese gli studi letterari presso la scuola del fratello Vincenzo. Fin dall’inizio, rivelò il suo disprezzo verso lo stile petrarchista e classicista allora in voga, i cui massimi esponenti erano Pietro Bembo, Ludovico Ariosto, Baldassarre Castiglione e monsignor Giovanni Della Casa, preferendo la letteratura triviale, erotica e popolaresca di Marziale, Petronio, Catullo, e di altri autori più recenti quali Francesco Berni, Luigi Pulci e il Ruzzante, da lui considerati suoi maestri.
Nel 1534 si trasferì a Napoli, dove iniziò a studiare Legge e conobbe l’insigne giurista Bartolomeo Camerario, suo concittadino. In quegli anni, scrisse una raccolta di epigrammi latini (Hisabella, 1535) dedicata ad Isabella di Capua, moglie del viceré Ferrante I Gonzaga.
La sua opera non ebbe molto successo, quindi nel 1536 decise di spostarsi a Venezia, presso la casa di Benedetto Agnelli, oratore del duca di Mantova, che lo introdusse nel “bel mondo” della città lagunare; nel mese di agosto pubblicò il poemetto in ottave Tempio d’Amore, in onore delle gentildonne veneziane, ma in realtà era un plagio di un’operetta scritta dal poeta napoletano Capanio.
Caduto in miseria, nel 1537 fu accolto dal letterato Pietro Aretino che lo nominò suo segretario personale, ed insieme, grazie ad una proficua attività giornalistica, cominciarono a diffondere notizie piuttosto scomode e compromettenti su attività illecite commesse da alcuni potenti signori di Venezia.
Questo sodalizio durò fino a quando Franco decise di mettersi in proprio, suscitando l’ira dell’Aretino che lo cacciò di casa. Di tutta risposta, l’autore beneventano in ben due scritti, nelle Pistule Vulgari del 1538 e nei Dialoghi Piacevoli del 1539, lanciava ben chiari messaggi di odio verso il suo vecchio protettore.
La tensione si acuì talmente tra i due che Ambrogio Eusebi, amico fraterno dell’Aretino, stanco delle provocazioni e delle dure invettive di Franco, gli sfregiò il volto. L’episodio increscioso lo convinse a cambiare città, peregrinando tra gli Stati italiani e ponendosi al servizio di vari ed influenti signori.
Soggiornò a Casale Monferrato, dove fondò l’ “Accademia degli Argonauti” e continuò la polemica contro Aretino, dedicandogli sonetti dai contenuti gravemente offensivi, e nel 1546 pubblicò la sua opera più famosa, la Priapea, caratterizzata da un linguaggio violentemente osceno e volgare; appartiene al periodo piemontese anche la stesura del Dialogo delle Bellezze del 1542, che fu una sorta di esaltazione delle donne della città. Il periodo successivo fece tappa a Mantova, Cosenza e Napoli; pubblicò ancora altri componimenti, ma non ebbe successo.
Nel 1558 giunse a Roma: anche qui si mise al servizio di potenti aristocratici continuando la sua attività letteraria e giornalistica. Il suo arrivo fu funestato però da un arresto; infatti a Roma ritrovò il suo vecchio amico Bartolomeo Camerario, che allora ricopriva la carica di commissario generale per l’Annona, ed insieme furono incriminati per essersi appropriati illecitamente di fondi pubblici. L’accusa gli costò l’incarcerazione per 8 mesi, dove fu liberato solo dopo l’intervento del duca di Paliano, Giovanni Carafa. In questo caso gli era stata utile la fitta rete di conoscenze di cui poteva disporre, che non escludeva tra l’altro la frequentazione di delinquenti comuni, ubriaconi e donne di malaffare.
A Roma entrò in contatto con il procuratore fiscale apostolico Alessandro Pallantieri, ostile alla fazione della famiglia Carafa. Pallantieri commissionò a Franco un libello diffamatorio ed alcune pasquinate indirizzate al papa Paolo IV Gian Pietro Carafa, che contribuirono ad inimicarsi per sempre quel potente clan.
Non a caso, dopo alterne e complicate vicende, dopo l’elezione al soglio pontificio del cardinale Giovanni Ghisleri con il nome di Pio V (1566), sostenuto da quella influente famiglia, Franco fu accusato di aver avuto un ruolo importante nelle vicende che portarono all’ingiusta condanna del cardinale Carlo Carafa; infatti nella sua casa furono ritrovati documenti e scritti compromettenti.
Incarcerato e torturato dal Tribunale dell’Inquisizione in piena Controriforma, gli fu data la possibilità di ritrattare e di fare i nomi dei suoi complici, ma preferì non pentirsi, anche perché aveva sempre nutrito odio verso la figura del papa e la Chiesa cattolica; non a caso, in precedenza, aveva avuto contatti con i protestanti e con alti prelati sospetti di eresia e di filo-luteranesimo, tra cui il cardinale Giovanni Morone. Niccolò Franco fu condannato a morte e impiccato a Roma l’11 marzo 1570 presso Ponte S. Angelo.
Il poeta beneventano va senz’altro accostato ad altri spiriti tormentati e dalla vita burrascosa del Cinquecento, come Tommaso Campanella, Giordano Bruno ed il Caravaggio, uomini figli di un’epoca segnata da una grande crisi di coscienza creatasi con l’avvento del Protestantesimo e che produsse la fine dell’unità religiosa e morale dell’Europa cristiana.
A Niccolò Franco è stata intitolata una piccola strada nel centro storico di Benevento.
Francesco Pio Meola