Coreografare i conflitti
Osservando i moti interiori, aprendo gli occhi all’esterno, è semplice fare esperienza del conflitto. Scontro, urto, opposizione, guerra se attingiamo dai sinonimi, comunicazioni interdette. Forme di resistenza inconsapevole, talvolta, e di attaccamento alle strategie e schemi comportamentali sedimentati nelle memorie. Coniando possibili immagini: posture esistenziali che delineano le nostre passeggiate nel mondo e ci differenziano dagli altri. Le nostre storie potrebbero essere lette come danze dei conflitti.
Ve n’è una in particolare che vorrei raccontare per consentirci di guardare diversamente al conflitto, e di pensare a esso fisicamente. È quella della ricerca condotta dalla danzatrice e scrittrice Dana Caspersen moglie e brillante interprete di Forsythe, alla cui firma si devono una serie di pratiche coreografiche pubbliche che indagano dinamiche relazionali complesse, i cosiddetti conflitti distruttivi perpetrati in una dimensione sistemica. Il passaggio tra la danza, la coreografia alla risoluzione dei conflitti nell’immaginario della danzatrice è davvero breve per la Caspersen, rappresentando un percorso di ricerca e di scelta nel caos degli eventi possibili. Quali forme di negoziazione nel presente che evitino la ripetizione fine a sé stessa.
Ciascuna decisione risente di fondamentali categorie comportamentali: la spaziale, temporale, ritmica, formale, relazionale e la percezione interiore. Esse appartengono ai processi di risoluzione dei conflitti così come alla coreografia. Da qui il suo interesse ad applicare le strategie coreografiche all’indagine del conflitto, affinché gli abituali schemi comportamentali vengano portati alla luce a consentirci una possibilità differente.
Per meglio comprendere i suoi esperimenti, parleremo di alcuni progetti da lei ideati per portare nuova consapevolezza su complessi temi sociali come la violenza, il razzismo, il sessismo.
Il primo è un dialogo coreografico pubblico sull’immigrazione che accade a Berlino dal titolo Knotunknot. La coreografa invita persone con trascorsi d’immigrazione a collocarsi nello spazio rispondendo alle domande: Chi è tedesco? Chi ha discendenza tedesca? Chi non si identifica con sicurezza? Lo spazio, a sua volta è stato suddiviso in triangoli a rappresentare le possibili risposte. A Ciascuna risposta la propria porzione spaziale. Un’interrogazione sul concetto d’immigrazione che trova nella coreografia il metodo e invita il corpo a creare una corrispondenza tra il sistema di valori in cui si crede e lo spazio che si abita.
Interessante notare come cambiando la domanda, anche la posizione spaziale si modifica, allentando così le barriere fisiche e d’identità, il concetto di appartenenza. Al termine della coreografia, quasi chiuso un primo atto, se ne apre un secondo supportato dalla dimensione verbale. L’ambiente viene sagomato attraverso la presenza di venticinque tavoli e le persone presenti suddivise in modo tale che non si conoscano tra loro. Nuove domande inerenti l’esperimento appena provato verranno poste e la prima persona avrà un tempo limitato per rispondere e cambiare tavolo. La ristrettezza del minutaggio permette di introdurre oltre alla categoria spaziale, quella temporale che opera in modo da far vacillare le strategie di risposta per entrare in medias res.
La Caspersen continuerà sviluppando il proprio modello di dialoghi coreografici pubblici trapiantandolo in ambiti diversi, occupandosi della creazione di gruppi di comunicatori che prendano fisicamente e visivamente consapevolezza delle proprie modalità di comunicazione. La variante visuale si lega all’esperimento proposto presso l’Accademia di arti visive di Francoforte, dove sui tavoli di discussione vengono posti dei fogli sui quali è richiesto di lasciare una traccia durante il proprio turno di parola. I fogli poi stampati, messi al suolo, ricodificano il linguaggio verbale in gesto fisico accessibile ai partecipanti.
L’ultimo progetto di questa storia Violence:Recode propone una riflessione sullo spazio che le violenze strutturali occupano nel corpo e l’impatto della nostra posizione in esse. Come posturalmente ci si colloca nella società? La ricerca espone l’osservatore partecipante a una serie di posture, per esempio un uomo seduto, cui seguono due affermazioni: un uomo che aspetta sua moglie – un uomo che aspetta suo marito. I presenti spesso risentono di un cambiamento nel corpo quale effetto della sedimentata discriminazione di cui spesso siamo solo razionalmente e verbalmente coscienti.
I dialoghi coreografici della Caspersen sottendono l’idea di una responsabilità indivuale, spesso incoscia e incorporata, nel perpetrare gli schemi distruttivi sociali, posturalmente agiamo ripetendo dinamiche conflittuali non creative. La speranza è quella di aprire gli occhi da danzatori attenti ai nostri schemi motori nel navigare nella coreografia sociale e approcciare il conflitto come luogo di tensione dinamica, in cui le possibilità possano essere agite. Così facendo la comunicazione accoglierebbe il principio di opposizione come forza creativa e metterebbe in gioco la curiosità, capace di trasformare la nostra percezione soprattutto in situazioni di contrasto, perché è essa a determinare la differenza nell’ascolto, a trasformare il suono dell’attacco in informazione da conoscere.
Il prologo di questa storia è ancora da scrivere e danza nella domanda: quali coreografie a comporre la pace in corpi che agiscono sul palco della violenza?
Parafrasando la danzatrice: bisognerebbe illuminare con tutto il corpo la ricchezza della nostra differenza.
STEFANIA CHIUSOLO