Il paesaggio urbano: conservazione, trasformazione e degrado
I luoghi sono sempre dotati di una propria individualità, tanto che il geografo Vidal Le Blanche utilizza la parola personalità. Il paesaggio urbano è prodotto dalla comunità che lo popola, ne contraddistingue il “carattere”, in senso positivo o negativo. Il territorio ha proprie regole di conservazione e riproduzione che se ignorate, portano al dissesto e alla distruzione. L’elaborazione di un pensiero del paesaggio (e del territorio) non può esimersi dal porsi la questione della conservazione. Quando si ha l’ambizione di trasformare una città, occorre prima decidere cosa mantenere. La conservazione non è un aspetto secondario, non va associata con la poetica del passato o alla nostalgia di chi rimpiange i vecchi tempi. Di fronte al paesaggio di Orte scempiato dal disordine e dalla sciattezza delle nuove edificazioni, Pier Paolo Pasolini, mostrava come il degrado estetico fosse congiunto a una decadenza civile e sociale. Analogamente, quando osserviamo la furia iconoclasta dei miliziani dell’Isis contro i simboli delle millenarie culture pagane del Medio Oriente, correttamente associamo a quel gesto una volontà di annientamento e umiliazione.
Oggi, quando si pone l’attenzione sullo stretto rapporto tra l’estetica di un paesaggio e la realtà concreta del luogo, quando si dimostra come lo scempio paesaggistico e la dissipazione del patrimonio storico e architettonico non si una deplorevole svista causata dalle necessità economiche, ma discende di un modello culturale mondialista e piatto, immediatamente si è sospettati di “conservatorismo”.
La questione del paesaggio, se compresa in tutta la sua portata, non può essere limitata al solo problema della bellezza dei luoghi, altrimenti si fatica a comprendere le ragioni per esso si trova in pericolo. È evidente come non possa sussistere paesaggio senza trasmissione di sapere, cultura e stile specifico del territorio, senza tradizione. Ma questa parola, problematica e da maneggiare con cura, non deve richiamare a qualcosa che ricorda l’imbalsamazione museale, ma a un processo dinamico di selezione, valorizzazione, adattamento del patrimonio che contrassegna una realtà territoriale.
A tal proposito Luigi Cervellati propone una tesi forte basata sul rifiuto di nuove città da costruire e grandi opere infrastrutturali, ma sul ripristino delle forme del territorio laddove si sono concretizzati dei disastri urbanistici. «Il ripristino – scrive – costituisce una parte tutt’altro che secondaria del restauro. Tanto più se il restauro riguarda l’urbano, le periferie, l’ambiente naturale. Tanto più se il restauro è inteso quale intervento che restituisce – o ripara dai danni subiti – la struttura urbana alterata in attesa delle future cementificazioni (…) E per restituire occorre capire e riprendere il progetto originale, cercando di non superare il confine fra restauro e ricostruzione interpretativa. Il ripristino/ricostruzione non può essere né interpretativo né soggettivo.» (1)
Si utilizza, al limite dell’abuso, l’espressione “idea di città” ma, ogni volta che si va nel concreto non si riesce ad abbozzare nemmeno un concetto. Il motivo si spiega col fatto che buona parte degli amministratori hanno una visione solo economica del problema e spesso, neanche quella. Per la verità, certe scelte sono improntate alla semplice strafottenza di chi utilizza l’intervento urbanistico come fabbrica del consenso.
Benevento non si sottrae a questa mentalità irrispettosa che vede lo spazio urbano crescere solo su direttrici speculative, un “assembramento” che provoca il progressivo svuotamento della città, in piena fase di inaridimento economico-sociale. L’abitudine al degrado ha fatto perdere l’attenzione nei confronti del paesaggio dove viviamo. La città è da sempre il luogo dello scambio e quindi del consumo; il consumo è la condizione fondamentale della sua esistenza e soprattutto del suo sviluppo. Senza consumo non esiste innovazione, altrimenti le città rischiano di trasformarsi in luoghi senza tempo. Infatti, sono i tempi del consumo, a rendere diverse le città, a rinnovarle, anche a distruggerle per poi ricostruirle secondo lo spirito del tempo. Non esiste la città ideale; è la città storica il materiale sul quale lavorare, studiare ed eventualmente intervenire.
Bene, se questo incredibile ciclo vitale viene sospeso dalla cattiva gestione politica della città cosa resta? Si fa spazio la “consunzione”, non la distruzione creativa che fa rinascere la città, ma il lento logorio. Benevento è un triste esempio di città che sparisce per fare posto ai detriti di una grande periferia, avanzi di vita urbana che lentamente si corrodono. Invece di semplificare, ricostruire e recuperare l’esistente, si insiste con l’abuso dei cantieri. Il risultato? Troppi edifici inutili, spazi superflui e svuotati e seri problemi di manutenzione. Gillo Dorfles ha definito come horror pleni, quella sensazione provocata dalla moltiplicazione inarrestabile di oggetti, informazioni e sollecitazioni presenti nella metropoli. In molte città, l’unico “pieno” è questo affastellamento di strutture, che si svuotano e si riempiono ma dove non c’è vita.
Junius
NOTE
- L’arte di curare la città, Il Mulino, Bologna, 2000