O MURTICIELL
Anno del Signore 1885
I lavori del cimitero stavano per essere ultimati, la chiesa madre era quasi pronta ad accogliere i numerosi fedeli.
Come ogni giorno il giovane Manfredi si recava al cantiere per lavorare; era sua la ditta incaricata dei lavori.
Molte erano le tombe ormai pronte e si stavano effettuando le prime inumazioni ma cosa più importante e necessaria: la traslazione dei resti dai vari luoghi di sepoltura che si trovavano nei pressi delle chiese cittadine.
Erano le dieci del mattino di una calda giornata di maggio; Manfredi era in pausa con i suoi operai.
Gli si avvicinò uno degli addetti alle traslazioni chiedendo loro un aiuto nel trasporto delle varie casse da morto:
“Giovà, Mario e Tonino andiamo ad aiutarli e poi riprendiamo” disse Manfredi voltandosi verso gli operai.
Sul carretto vi erano una decina di bare, o per meglio dire, ciò che ne restava.
Solo alcune sembravano recenti di qualche anno, le restanti dovevano avere almeno mezzo secolo.
Manfredi e Tonino presero una delle bare; era leggera, piena di ossa probabilmente e si incamminarono in una delle sale del cimitero.
I restanti operai portavano, ognuno, un’urna, contenenti quel che rimaneva di due bambini provenienti dal cimitero dei Morticelli.
In quella sala venivano recuperate le ossa dai cadaveri per poi essere poste nell’ossario che si trovava nella sala sottostante la chiesa madre, a cui si accedeva tramite una scala a chiocciola.
Manfredi e Tonino entrarono, posarono a terra la bara, non erano soli.
Vi erano due addetti con il viso coperto e con solo gli occhi visibili, intenti ad estrarre le ossa da una bara e sistemarle poi sul pavimento adiacente la parete destra.
Intanto erano entrati anche gli altri due operai e avevano sistemato le urne a terra ed erano tornati al carro a prendere il resto.
Tonino, non reggendo quella vista, era tornato al suo lavoro alla chiesa, mentre Manfredi era rimasto ad osservare, affascinato, quell’operazione così meticolosa.
Si trattava di un uomo, dato il cappello che i becchini avevano estratto; finito con quello, misero i resti del legno, ormai marcio, sul cumulo all’esterno della sala; intanto altri due becchini caricavano le ossa su una carriola e le portavano alla chiesa.
Usciti da quella sala i resti dei corpi erano ormai misti e non più identificabili, avevano perso la loro identità.
I becchini presero l’altra bara, quella portata da Manfredi, e continuarono nell’accumulo, senza troppa cura, dei resti di chi vivo non era più.
Manfredi decise di tornare a lavoro ma qualcosa lo aveva colpito; aveva il viso pensieroso.
I suoi operai continuavano l’ultimazione della facciata della chiesa; riprese anche lui la sua mansione.
Il sole cocente andava tramontando sulla città e ciò segnava la fine dei lavori per quella giornata; mentre gli operai sistemavano l’attrezzatura, Manfredi prese la borsa che conteneva il pranzo e si incamminò verso la porta della chiesa.
Nel frattempo due becchini erano usciti e lo avevano salutato. Sulla parte sinistra dell’altare vi era la scala a chiocciola. La percorse e, ormai giunto al piano sottostante, si trovò dinanzi un accumulo di ossa la cui altezza superava la sua. L’odore era tremendo tanto da fargli coprire il naso con la mano.
La luce, proveniente dalle scale, era fievole ma utile abbastanza per dargli modo di vedere ciò che gli interessava: il teschio della bara che aveva trasportato lui la mattina.
Lo guardò bene.
“È proprio un bel teschio” e lo mise nella borsa, sicuro che nessuno lo vedesse. Dopodiché risalì le scale e uscì dalla chiesa.
“Dove sei andato?” gli chiese Mario.
“Ero curioso di vedere l’ossario” rispose Manfredi.
“L’ho visto dopo pranzo, quasi rimettevo dalla puzza” proseguì Mario, con un’aria nauseata.
“In effetti non è né un bel vedere né un bell’odore. Se avete finito di sistemare potete andare. Ci vediamo domani alle sei” concluse Manfredi salutando i suoi operai e incamminandosi verso l’uscita del cimitero.
Aveva un’aria soddisfatta, erano anni che desiderava un teschio da accudire; era una tradizione partenopea che Manfredi conosceva bene: nella Napoli sotterranea vi erano numerose ossa in quanto, a causa di epidemie del 1600 e di inizio 1800, i corpi venivano lì portati in modo da evitare contagi al resto della popolazione.
Nei decenni successivi il culto dei morti portò i napoletani ad accudire e pregare i teschi, adottandoli in un qual modo, finendo per parlare con loro di eventuali problemi e chiedere intercessioni.
Alcuni teschi, i più “fortunati” venivano posti in teche di vetro e puliti dai loro curatori.
Tornato a casa sua, salutò sua moglie Carmen e le mostrò il contenuto della borsa. Quest ultima rimase spaventata e perplessa dall’insolito contenuto della borsa del marito.
“Ma cosa ci vuoi fare con questo teschio?” chiese Carmen.
“Voglio metterla nella nostra camera, ogni giorno metteremo ceri e fiori, vedrai che ci aiuterà” rispose Manfredi, compiaciuto di quel nuovo ospite in cui riponeva molta fiducia.
“Io non metterò nulla e ti chiedo di portarlo via. Avremo sfortuna per questa tua profanazione” intimò la moglie.
“Non accadrà proprio nulla e non contraddirmi, la testa rimane qui e avremo la sua protezione” con tono irritato, sbattendo la borsa sul tavolo.
“Sperò che non attiri sventure su di noi” sussurrò Carmen segnandosi.
Intanto Manfredi era uscito nel cortile e si era recato alla fontana per ripulire il teschio; rientrato in casa, una volta asciugato, lo aveva posto sul settimino, gli pose vicino un crocifisso, si segnò e con un sorriso appagato si diresse dalla moglie chiedendole di comprare, il giorno dopo, dei ceri e di mettere dei fiori per il loro nuovo protettore.
Scettica della richiesta del marito non poté che annuire.
Erano le due del mattino, Manfredi dormiva accanto a sua moglie Carmen nel loro talamo nuziale.
Un riposo agitato, irrequieto.
“Riporta le mie spoglia lì dove le hai trovate”
Si dimenava nel letto, da un lato all’altro; allucinazioni, finzioni o quant’altro. Sudato, esausto, si sveglia e, in uno stato d’ansia che lo portò ad una respirazione affannosa, si guardò intorno, ma nulla.
Nella gola oscura della notte cercava di moderare i veloci battiti del petto, soffocando quel segno di paura provocato, di sua stessa convinzione, da un incubo. La tranquillità andava sostituendo quel suo stato d’animo, si rimise sdraiato e tornò a dormire.
“Riporta le mie spoglia lì dove le hai trovate!”
Questa volta Manfredi sentì quella voce, non era un volgare incubo; sobbalzò dal letto, impugnò il fucile e intimò:
“Chi c’è in casa? Uscite o vi ammazzo!”
“Portami dove mi hai trovato”
“Ma chi sei? Vieni fuori bastardo!”
Intanto la moglie, svegliata dalle urla del marito, si era alzata dal letto e aveva acceso un lume.
Entrambi si diressero verso la porta di casa, perlustrando le stanze durante il loro cammino.
Non vi era nessuno, la voce sentita da Manfredi non aveva fonte.
“Cosa è successo?” chiese Carmen impaurita.
“Ho sentito una voce” disse Manfredi.
“Ma siamo soli in casa, sei sicuro di averla sentita?”
“Non sono sicuro ma qualcosa ho sentito”
“Torniamo a dormire, sarà stato un incubo”
Manfredi posò il fucile vicino al comodino ma sapeva di dover dare torto alla moglie; si rimise a letto ma non riuscì a dormire.
Il mattino seguente Manfredi, prima di uscire per recarsi al cimitero, si segnò e pregò il teschio di proteggere la sua casa e i loro abitanti, salutò la moglie e andò a lavoro.
Carmen, infastidita da quella visione, decise di coprire con un lenzuolo il teschio, almeno fino al ritorno del marito; come da lui chiesto andò a comprare dei ceri e raccolse dei fiori dal giardino limitrofo la loro abitazione, ma non sistemò nulla, aspettò il marito; se ne sarebbe occupato lui, lei ne sarebbe rimasta fuori.
Manfredi si prendeva cura di quel teschio come un figlio, aveva acceso i ceri, messo dei fiori in un vaso e posto delle immagini votive; era un sacrario che non aveva nulla da invidiare a quello dei santi nelle chiese.
La notte successiva, mentre dormivano, quella voce tornò a farsi sentire:
“Manfredi riporta le mie spoglia lì dove le hai trovate, maledetta sia la tua casa!”
Questa volta Manfredi si svegliò subito e sentì la voce.
“Ma chi sei?” chiese.
“Portami dove mi hai trovato!” intimò la voce.
“Ma dove devo portarti?”
Purtroppo non ricevette risposta. Carmen dormiva e non volle svegliarla; si girò sul lato, vide il teschio illuminato dalla luce dei ceri e chiese di mandar via quella oscura presenza che infastidiva il suo riposo.
La notte successiva l’episodio si ripeté:
“Manfredi riporta le mie spoglia lì dove le hai trovate, dannata sia la tua anima!”
Il tono minaccioso svegliò terrorizzati entrambi gli sposi.
Manfredi non poté che richiedere:
“Ma chi sei? E dove devo portarti?”
“Portami dove mi hai trovato!”
“Ma dove?”
Entrambi gli sposi si voltarono e guardarono il sacrario.
“È lui Manfredi, portalo al cimitero ti prego! Portalo via da casa nostra!” esortò la moglie.
“Non può essere vero, non può essere il teschio!”
“Ti dico che è lui che vuol tornare nel luogo da cui lo hai preso, credimi ti prego! Non lo voglio più in casa!”
“Non credo sia lui! È qualcosa ma non so cosa, ma non è il teschio! Domani vai da un prete e chiedigli di benedire casa! E ora torna a dormire”
Con queste parole si rimise a letto e tornò a riposare.
Intanto Carmen, preso un rosario, iniziò a recitare delle preghiere per scacciare il male dalla loro vita.
Il giorno dopo Manfredi si recò come sempre al cimitero e Carmen andò alla chiesa in cui si erano sposati, chiedendo al parroco di benedire la loro abitazione, spiegandogli ciò che era accaduto.
Questi non se lo fece ripetere e si incamminò assieme alla ragazza presso la suddetta.
Durante la benedizione i due udirono uno scricchiolio ma, mentre il padre continuava tranquillo la benedizione, Carmen voltò lo sguardo al teschio; forse era suggestione, ma sembrava essersi mosso.
Non dando troppo peso a quell’evento, ringraziò e salutò il prelato; chiuse la porta, entrò nella sua stanza da letto e si avvicinò al sacrario:
“Questo è l’ultimo giorno che resti qui. O ti porta via Manfredi o ti porto io al cimitero, te lo giuro”.
Il campanile della chiesa rintoccava, erano le tre del mattino. Carmen si era svegliata per andare in cucina a bere, Manfredi dormiva.
Tornò a letto; non passò molto che il letto iniziò a tremare. Non esitò a svegliare il marito.
“Il terremoto, svegliati! Trema tutto!”
Manfredi aprì gli occhi e saltò immediatamente dal letto.
Non era il terremoto, il pavimento non tremava.
“Trema solo il letto!” disse impaurito alla moglie.
“Riporta le mie spoglia lì dove le hai trovate o renderai la vita in codesta notte!” riecheggiò la voce nella stanza.
Intanto iniziarono a tremare anche l’armadio e i comodini, solo il settimino restò fermo.
“Mi credi ora? È il teschio! Riportalo al cimitero!” urlò la moglie.
“Portami dove mi hai trovato o non vedrai la prossima alba!” urlò di nuovo la voce.
Manfredi non poté fare altro che credere alla moglie, quel teschio rischiava di nuocere ad entrambi.
“Si ho capito! Domani ti porto al cimitero, lasciaci in pace ora!” implorò alla voce.
In quell’istante l’armadio, i comodini e il letto smisero di tremare; i due sposi si guardarono, ancora impauriti.
Ad un tratto, dal settimino, il teschio cadde a terra. Manfredi lo raccolse, lo mise nella borsa e si sedette sul letto.
“Avevi ragione, poteva finire male” disse alla moglie.
“Portalo via e torneremo a dormire tranquilli” disse Carmen.
I due si abbracciarono e, rimettendosi a letto, provarono a dormire, dopo l’incubo che avevano vissuto poco prima.
Il mattino seguente Manfredi, dopo aver messo il pranzo nella borsa, la quale conteneva il teschio riposto nella notte, salutò la moglie, sollevata in viso dalla fine di quella terribile convivenza.
Si incamminò come ogni giorno verso il cimitero ma qualcosa era diverso, la borsa era molto pesante, almeno venti volte di più rispetto agli altri giorni.
“Ma come diavolo pesa” pensò “e non può essere il teschio, dannazione!”
Sembrava che trasportasse un corpo; passò il ponte che collegava le due sponde e il peso aumentò.
Dovette rallentare il passo, affaticato dalla sua borsa, quando quest’ultima iniziò a tremare.
Lo sbalzò su di un lato del ponte, poi sull’altro, fin quando dalla borsa non fuoriuscì il teschio rovinando nel fiume.
Si sentì il tonfo, ma era simile a quello di un corpo; si affacciò per vedere dove fosse caduto, ma non vi era più nulla, come se sparito.
Riprese la borsa e, come se liberata da un grave, la rimise in spalla.
Nell’indifferenza di un giorno qualunque si rimise in cammino verso il cimitero, come ogni giorno, prima di quel dannato incubo.
Cosimo Gentile