La letteratura sulle cospirazioni è ricca, non conosce crisi. Ultimamente, diversi autori, per lo più americani, sono diventati milionari grazie a ricostruzioni e descrizioni del nuovo ordine mondiale. Il tema ricorrente è sempre lo stesso: un manipolo di uomini controlla tutto all’interno di organizzazioni riservate. Ma è proprio tutto così semplice? Il problema di questi libri è una notevole superficialità nel trattare l’argomento, così come una eccessiva semplificazione che non aiuta a comprendere l’effettiva trama del potere, le sue articolazioni su più livelli e la dialettica all’interno degli stessi apparati. La questione è molto più complicata, non si può ridurre con qualche nome e sigla da offrire come grande cospiratore, altrimenti finiamo nel romanzo popolare. Meglio leggersi “La storia dei tredici” di Honoré de Balzac.
C’è stato un periodo in cui l’analisi del Potere internazionale e delle sue articolazioni era una questione più seria. Pochi conoscono il Professor Carroll Quigley, controverso storico, che insegnò ad Harvard, Princeton e Georgetown tra gli anni quaranta e settanta del Novecento. Egli era convinto che l’establishment nel mondo anglo-americano fosse un argomento tabù su cui gli studiosi di alto rango non si fossero mai davvero cimentati. Lo stesso Quigley si considerava un membro delle alte sfere e si dichiarava espressamente d’accordo con le idee guida di questa classe dirigente, anche se non condivideva l’eccessiva riservatezza della rete di potere.
Così Quigley, con una ricerca durata molti anni, ricostruisce famiglie, connessioni e modus operandi di questi gruppi con la pubblicazione, nel 1966, di Tragedy and Hope, libro di più di mille pagine in cui si ricostruisce la vicenda del potere anglo-americano tra i primi del Novecento e la Seconda Guerra Mondiale. L’opera è diventata anche un oggetto di culto per collezionisti, una lettura difficile e pesante, disponibile solo in inglese, con alcune sintesi tradotte che descrivono il nocciolo della teoria di Quigley.
Cosa scopriva Quigley? Che gli Stati Uniti e la Gran Bretagna erano e sono governati da minoranze marginalmente toccate dalle dinamiche elettorali. Il centro di questo potere erano i salotti finanziari animati dalle grandi famiglie: i Rothschild, i Morgan, i Rockefeller, i Lamont e nel Regno Unito i ricchissimi Cecil Rhodes e Alfred Milner. Il loro potere si strutturava per network: proprietà di giornali, finanziamenti delle università, creazione di fondazioni e centri di ricerca, partecipazione assidua alla vita dei partiti e finanziamento di entrambe le fazioni, costante presenza nelle alte cariche amministrative dello Stato.
Quigley elencava le caratteristiche di questo establishment. Nel Regno Unito era concentrato a Londra, nella City e nei club, mentre negli Stati Uniti viveva nelle grandi città della East Coast. Tutti i componenti di questa élite erano bianchi, in larga maggioranza protestanti (seppure non mancavano gli ebrei ed erano ammessi cattolici come i Kennedy), d’idee cosmopolite, progressiste e internazionaliste, protese alla conquista dei mercati esteri e spregiudicate da fare affari con tutti i regimi politici.
Geminello Alvi le definisce “aristocrazie venali” per evidenziare la propensione a mettere al centro delle proprie azioni il calcolo economico. Quigley ricorda come a questa élite, non interessano molto i vincitori delle elezioni, quanto essere sempre presenti nei posti di comando fondamentali. Ciò avveniva e avviene ancora, grazie ai potenti sistemi di reclutamento messi in campo: le università della cosiddetta IVY League, il CFR (Council on Foreign Relations) e i “think tank”, fondazioni di formazione politico-culturale. Queste strutture selezionano una classe politico-amministrativa che rispecchia, per linee e porzioni, il pensiero dell’establishment. Quigley passa in rassegna una quantità impressionante di biografie di piccoli e grandi potenti mostrando come tutti, abbiano trascorso almeno un periodo della loro vita dentro queste organizzazioni.
Il suo libro si caratterizza per il rigore scientifico, i dati storici elencati mettono un freno alle teorie complottistiche più fantasiose e superficiali. La sua opera si limita a mostrare i rapporti, le connessioni, i finanziamenti, le parentele tra i potenti dell’anglosfera che di fatto domina ancora, con nuovi nomi e volti ma con una origine e connessione comune.
Difficile valutare se Quigley avesse ragione o meno su tutto. Certo è che vista in retrospettiva la struttura del potere americano appare coerente con le suggestioni dello storico. Non è un caso, infatti, che la politica americana presenti delle vere e proprie dinastie: i Kennedy, i Bush, i Clinton. Adesso proprio a Washington è in corso uno scontro tra élite vecchie e nuove. Vincere le elezioni non basta, serve il controllo dei posti di comando.
Ciò non dimostra che esiste una congiura per governare il mondo e dirigere la politica mondiale, ma è evidente che Quigley sveli un aspetto importante del funzionamento e delle idee delle classi dirigenti britanniche e americane con caratteristiche comuni definite. Alcuni aspetti spiccano su tutti: i canali di selezione fuori dal circuito democratico, un orientamento a tendenza imperiale, rivolto verso l’esterno sia economicamente che culturalmente e una omogeneità di questa élite rispetto a quelle europee.
Storici famosi di stampo anglosassone come lo stesso Quigley, Arnold J. Toynbee, Samuel Huntington fino al contemporaneo Niall Ferguson ragionano in termini di civiltà ponendole al centro delle proprie ricerche, molto più degli studiosi europei contemporanei. Arnold Toynbee è noto al pubblico per gli studi sui cicli delle civiltà e per aver teorizzato che a capo di ogni ciclo si ponga una minoranza creativa, stabile con proprie regole e, soprattutto, una propria e precisa cultura. Nel 2018, il britannico Niall Ferguson ha dato alle stampe “La piazza e la torre” in cui passa in rassegna le reti del potere cavalcando le epoche storiche, muovendosi dalla massoneria settecentesca fino alla nuova aristocrazia industriale delle Big Tech. Ferguson vende milioni di copie, ma forse farebbe fatica a trovare uno spazio accademico nell’Europa continentale dove, tesi così audaci, sono poco tollerate dalla classe intellettuale.
La forza e la selezione dell’élites è una caratteristica molto forte della sfera anglosassone. D’altronde Michael Mann, noto sociologo e tra gli ultimi teorici dell’impero, considera quello americano un potere infrastrutturale capace di flettersi e snodarsi dentro e fuori l’America, con una articolazione in quattro dimensioni: militare, economico, politico e culturale. Le caratteristiche che lo storico dell’Antica Roma, Ronald Syme, individuava anche per la Repubblica Romana, guidata da una oligarchia omogenea e culturalmente compatta con progetti, tradizioni e schemi mentali delineati. Sforzarsi di comprendere bene queste dinamiche, conoscere questa storia, può fornire spunti per comprendere meglio il mondo che ci circonda, oltre il velo delle apparenze. Perché la storia la disciplina che più delle altre può fornire gli spunti per disegnare le strategie e comprendere le inclinazioni, le sensibilità e anche le pericolosità di avversari e alleati.
Felice Presta