Wilfred Thesiger, l’ultimo grande esploratore del Novecento, appartiene a quel genere di uomini che è riuscito a scegliersi la vita forgiando il destino intorno a gusti e disgusti personali. A differenza di chi sogna di cambiare vita, e sognando la consuma, egli ha lasciato il segno attraverso l’azione. Arabian Sands, Sabbie arabe, è un classico della letteratura sul deserto, è il racconto dell’attraversamento del Rub el-Khali, l’Empty Quarter in inglese, il Quarto Vuoto, il deserto più grande del mondo che ricopre la parte più meridionale della penisola araba. L’impresa è del novembre 1945, dieci anni dopo, in una stanza d’albergo di Copenhagen, scriverà il racconto di quella avventura dura e impegnativa: gli incontri con i beduini e la condivisione della loro esistenza in un tempo fuori dal tempo, tra carovane, soste e le immense dune dell’Uruq el-Shaiba. In Italia Thesiger è un illustre sconosciuto, nel frattempo ci trastulliamo con i nuovi scrittori fenomeni e le loro storielle piene di sentimentalismo autobiografico: amori snervati, trame stracciate, un Io ipertrofico senza audacia e sostanza.
In Gran Bretagna e nei paesi anglosassoni, Thesiger è un classico. Morto nell’agosto del 2003, è stato la quintessenza di tutto ciò che è britannico, anche se ha trascorso buona parte della vita a fuggire i connazionali: nato ad Addis Abeba, ha vissuto in Africa orientale, ha viaggiato con i samburu e i turkana, è stato in Afghanistan negli anni Cinquanta, sarà Eric Newby che se lo ritrovò sulla strada a descriverlo in modo lapidario: “Un pezzo d’uomo, con una montagna a forma di naso, sopracciglia a cespuglio, la vecchia giacca di tweed degli studenti di Eton”.
Il terreno dove si fermarono per la notte era accidentato, Eric e il suo compagno tirarono fuori i materassi da campo. “Dio mio, che coppia di checche…”, fu il commento sarcastico di Thesiger mentre si sdraiava sulle rocce.
Figlio di diplomatici, primo inglese a nascere in Etiopia, dove il padre era ministro plenipotenziario, aveva passato la sua infanzia in un mondo dal “barbarico splendore”. Ignorava il cricket e il football, ma sapeva tutto di caccia, non si occupava delle questioni politiche, ma aveva visto la sanguinosa lotta per la successione al trono di Menelik, con i vinti trascinati in catene, il suono assordante dei tamburi, l’armata vittoriosa di Ras Tafari con le insegne e il bottino di guerra. In questa enclave cristiana in mezzo alle terre islamiche, Thesiger dopo essere ritornato in patria, si dovette adattare a un ambiente fatto di regole di comportamento, riti sociali, gerarchie dove nulla di ciò che gli piaceva era di moda, un piccolo mondo di compunti funzionari che vedevano in lui solo il lato disdicevole di non appartenenza allo stesso clan sociale. Il giovane Thesiger, troverà nei pugni, nell’isolamento e della letteratura epica una strategia di sopravvivenza. Fu rispettato e accettato, ma non compreso. Eppure tutti i condizionamenti esterni e il clima familiare non bastano a spiegare la formazione di un carattere.
La vita di Thesiger obbedisce a degli impulsi interiori che sfuggono alle spiegazioni logiche: figlio a pieno titolo dell’élite britannica, ma straniero in patria. Affascinato dalle tradizioni, dalle consuetudini, dalla magnificenza del passato, spesso portato a identificarsi più con quelle degli altri popoli che con le sue; l’inglesità come marchio d’origine, subita ma non troppo amata, mai rinnegata, la passione per i grandi spazi e le grandi solitudini, l’idea che le civiltà tradizionali siano più vere, più vicine ai bisogni e ai sentimenti primari e fondamentali dell’uomo.
Un turbine di contraddizioni, da cui uscirà scegliendo l’unica forma di devianza possibile: viaggiare. Si scopre un elegante fuorilegge, senza pulsioni banditesche. È antisociale, segue il proprio istinto, non pensa ai destini collettivi, non ha la coscienza di classe, scegli chi è simile a lui indipendentemente da come nasce; non riconosce i criteri che regolano professioni, successo, carriera e guadagni, non sono alla base delle sue scelte.
È il 1930 quando al giovane Wilfred giunge l’invito che gli cambierà la vita. Ras Tafari sta per essere incoronato imperatore con il nome di Hailè Selassiè: ai tempi della guerra civile il padre di Thesiger, che morirà pochi anni dopo, ne ha protetto la famiglia, fra lui e il futuro monarca è nata un’amicizia cementata da reciproca stima e interesse. È nel ricordo di questo passato che egli viene invitato ad assistere all’investitura, con il resto della delegazione inglese. Dall’Abissinia manca da dieci anni, il Paese sta lentamente cambiando, un processo di modernizzazione a tappe forzate è in atto, con risvolti anche farseschi nell’incrociarsi e combinarsi di mondi così distanti. Sarà così per molte terre africane. Un argomento che offrirà spunti ai racconti pungenti di Evelyn Waugh, geniale scrittore, ma incapace di comprendere l’altro da sé e incline più a sbeffeggiare i “selvaggi” in atto di civilizzarsi. Al contrario di Thesiger che in quel fracasso e nei riti ancestrali coglie il retaggio di una cultura millenaria destinata ad alterarsi con l’intromissione del progresso che spegnerà lentamente il “barbarico splendore”.
Thesiger proverà per Waugh un’irresistibile antipatia. Sono due concezioni dell’Inghilterra che si scontrano. Thesiger è un prodotto del sistema e quindi lo rispetta. In questo, pur essendo più giovane, sembra appartenere a un’epoca più antica, una Old Britannia imperiale e fiera di sé. Waugh è un figlio insoddisfatto della borghesia, ha il merito di cogliere tutte le carenze di quel sistema: l’ottusità, il filisteismo, il pregiudizio sciocco, la logica dello sfruttamento al posto del retto governo, l’impero inteso come dépendance casalinga. Il primo è più conservatore, il secondo più ribelle. Eppure Thesiger afferra la ricchezza, la profondità, la diversità delle culture con cui, da dominatore, entra in contatto e lentamente cerca di spogliarsi della britannicità per meglio capirle, senza rifiutare la propria identità. In tale atteggiamento c’è una modernità di spirito che invece a Wagh manca completamente. La fine di quell’impero farà più soffrire chi quell’impero l’aveva sarcasticamente deriso che chi lo aveva lealmente servito pur storcendo il naso dinnanzi a certe situazioni. All’Abissinia Thesiger dedicherà la sua prima spedizione geografica, alla scoperta di uno degli ultimi misteri africani, l’ubicazione della foce del fiume Awash, nel territorio dei Dancali: una spedizione lunga, dura, pericolosa e coronata dal successo. Aveva solo ventitré anni.
Come lui stesso ammetterà, Thesiger è un esploratore atipico, “più interessato alla gente che ai luoghi”. Non c’è nessuna molla scientifica, educatrice o divulgatrice in quello che fa. È soprattutto alla ricerca dei resti di un mondo condannato a sparire e che egli avverte più vicino a lui. Thesiger è trasversale al suo tempo, difende i costumi locali, ha anticipato di mezzo secolo il dibattito sul colonialismo, il diritto all’autodeterminazione dei popoli, ma lo ha detto con un tono differente, non ha mai concesso nulla alla retorica dei diritti umani, alla sacralità della vita e alla elevazione sociale attraverso il lavoro. Né ha mai pensato di rinnegare sé stesso, cancellare identità e religione per diventare altro. Di fronte a una foto della celebre viaggiatrice Freya Stark in costume arabo, commenterà senza fronzoli: “E’ vestita da uomo, con la spada, la cartucciera, il fucile e tutto il resto. Bene, ma perché? Se voleva vestirsi da arabo avrebbe dovuto indossare abiti femminili, non quel ridicolo abbigliamento da uomo o da ragazzo che la condanna dall’inizio alla fine”.
Il senso delle radici gli ha impedito il perdersi nel misticismo arabo e nel folclore africano, ma l’uno e l’altro con la dura esperienza sul campo, l’hanno ripulito da tutte quelle scorie insulari che possono rendere insopportabili i britannici. Vivendo per molti anni in Kenia, si è guardato bene dal mischiarsi con i connazionali, tra cottage, servitori, prati ben rasati e safari fotografici. Lui era orgogliosamente inglese anche se mal sopportava certi atteggiamenti da country gentlemen in trasferta.
Nato e cresciuto nell’epoca del progresso e delle specializzazioni, delle competenze, è riuscito a non “lavorare” un solo giorno della sua vita sfruttando il suo bagaglio di conoscenze antimoderne, fatto di sopportazione alla fatica e al dolore, disprezzo per le comodità, senso dell’onore, abilità manuale. Esperienze acquisite nelle zone desertiche. In mezzo ai nomadi illetterati, prova un senso di ammirazione: “Hanno più coraggio, più resistenza fisica, più capacità di sopportazione, più pazienza, più fierezza” di quanta ne abbia lui, figlio di una grande civiltà. Nell’Empty Quarter prima, il deserto vastissimo che si estende per diecimila chilometri dallo Yemen all’Oman e per cinquemila dall’Oceano Indiano al Golfo Persico, nella “Marsh Arabs”, le paludi poste alla confluenza fra il Tigri e l’Eufrate poi, Thesiger attraversa un mondo violento, dove vita e morte passeggiano sotto braccio, dove bisogna imporsi sulla natura, in un contesto feudale dove ogni categoria del pensiero occidentale semplicemente non esiste e d’altronde perché dovrebbe esserci?
Cacciatore, fotografo, guardacaccia, medico improvvisato, amministratore coloniale, arabista, amico di sultani, nella sua lunga e avventurosa vita Thesiger è riuscito a fare ciò che gli piaceva. Il desiderio più difficile. E non a caso la sua biografia si intitola The Life of My Choice, la vita che mi sono scelto. La valvola di sfogo del viaggio gli ha permesso di eludere, anche se non di risolvere, il carico di contraddizioni che l’educazione e la nazionalità gli avevano scaricato addosso. Affascinato dall’altro, dalla necessità di preservare le identità incrociate, non ha mai messo in discussione il colonialismo britannico, da lui giudicato qualitativamente superiore. Ma il doppiogiochismo inglese in Medio Oriente, per fare solo un esempio, non basta a giustificare un padrone benevolo e pure il sostegno a Selassiè, contrasta con l’odio di verso i modernizzatori che stravolgono i costumi, distruggendo lentamente il “barbarico splendore”.
Le scelte di Thesiger sono in primo luogo estetiche, a volte etiche, raramente ideologiche. Un estetismo che nasce dal piacere e dal fascino della lotta e delle difficoltà, da un certo gusto per il sangue e per il combattimento, dalla vita intesa come sfida e misurazione di sé stessi. Sopporta poco il Moderno, le sue idee e i comportamenti rientrano in un sistema di valori assolutamente coerente e fonte di grande civiltà, come fu dal Medioevo fino alla Rivoluzione francese. È l’Illuminismo, con la sua concezione progressiva della storia, la rivoluzione industriale e l’ingresso delle masse nella società come soggetto politico che cambiano lo scenario, mettendo in discussione antiche certezze.
Naturalmente nell’aristocratico Thesiger non c’è alcun idealismo alla Rosseau, nessuna mitologia del buon selvaggio da liberare dal gioco delle convenzioni e delle leggi, nessun ecologismo supponente, pronto a magnificare le virtù della natura contro certe meschinerie umane. C’è, semmai, una riflessione sui concetti di cultura e di civiltà alla luce degli sconvolgimenti del XX secolo, un interrogarsi sulla componente faustiana, prometeica del nostro agire per cogliere il punto di non ritorno, per evitare l’autodistruzione. Thesiger ragiona in termini di spazi, confini e limiti. Quel senso di precarietà esistenziale che lo colpì è ancora attuale. È assurdo ignorare le questioni cruciali del nostro tempo: la crisi della rappresentanza popolare, lo strapotere della macchina, la pressione di massa sul singolo, il modello di sviluppo frenetico. Tutto ciò Thesiger lo aveva compreso in anticipo e, per non essere travolto, si chiamò fuori. Ma non basta una fuga ammirevole, per mutare lo stato delle cose e vivere al limite rifiutando l’esistente. Il proprio tempo non deve essere necessariamente amato, ma compreso, vissuto e sfidato se si ha la forza.
Felice Presta