Il degrado urbanistico come sintomo
Victor Hugo, nel 1849, scriveva: “Cosa vedono i parigini di tutto quello che accade oltre la circonvallazione a tre chilometri dal centro? Qualunque cosa accada, la distanza filtra e appiattisce tutto”. Riformulo la domanda: cosa vedono i beneventani oltre lo sguardo corto del centro urbano e le case dove ci andiamo a rintanare? Una lunga sequenza di spazi urbani riempiti da palazzi destinati a restare vuoti e a oscurare il cielo, dei “non luoghi” di un paesaggio urbano disarticolato. Li chiamano con un termine triste e asettico “lottizzazioni”, appunto, lotti da posizionare dove più conviene. Zone desolate e cementificate, avamposti minacciosi tra linee di confine potenzialmente conflittuali. Sia chiaro, il fenomeno non è solo delle nostre terre. In questi decenni, nonostante le buone e cattive intenzioni di urbanisti, architetti e amministratori di inventare sistemi policentrici, certi valori non si sono modificati: il centro è rimasto tale e i margini restano la frontiera.
Quello che si è perso è il senso della decenza pure nel costruire. “La casa, la strada, la città sono punti di applicazione del lavoro umano; devono essere in ordine, altrimenti contraddicono i principi fondamentali sui quali siamo orientati; se sono in disordine, si oppongono a noi, ci intralciano, così come ci intralciava la natura circostante che abbiamo combattuto, che combattiamo ogni giorno”. Queste parole di Le Corbusier del 1924, sono dannatamente attuali.
A Benevento non dobbiamo fare i conti con il fenomeno egocentrico dell’architettura griffata delle archistars ma, purtroppo, è diffusa la mentalità di un’urbanizzazione non finalizzata a rendere concreta un’idea di città, ma alla solita apposizione di palazzine negli spazi ancora vuoti. È solo colpa della lobby del cemento? No. Mancano le idee a chi progetta lo spazio urbano, al massimo hanno solo qualche opinione estetica.
La città non è semplicemente un meccanismo fisico, una costruzione artificiale, ma è un corpo vivo, un prodotto della natura umana: carne e pietra. Il tessuto vitale di Benevento è lacerato da un’urbanistica dozzinale che non si pone il problema degli effetti prodotti dalle modificazioni degli spazi cittadini, ma è solo schiava del riduzionismo economico.
Benevento non è più un posto in cui viene voglia di dire: bene, qui vorrei vivere, perché in questo luogo c’è qualcosa di più di singoli edifici e monumenti. Esiste ancora un sogno di città? La doglianza non riguarda solo la situazione economica. Non mi interessa, quello è un brontolio da bottegai. Manca l’archetipo della città, il modello che prende vita nella complessità di strade, vicoli e quartieri. Quando una città avvizzisce esteticamente, chi la vive abbruttisce e fatica a non subire una trasformazione negativa. Sempre più rapidamente si intravedono i nuovi simboli di un’urbanizzazione disordinata, eterogenea e volgare, senza punti di riferimento, solo ammasso di strutture. Una periferia disarticolata che si dilata sempre più e a volte, lambisce le zone interne della città profonda, il suo nucleo storico.
L’aria cittadina è una particolare mescolanza di perbenismo rancido, nobili aspirazioni e rispettosità bigotta. La verità è che provo un malessere nuovo, qualcosa che si avverte sulla pelle ogni volta che attraverso questi vicoli rovinati e magnifici. Ogni volta che un Suv costringe a schiacciarmi sul muro mentre cammino e quando vedo le piazze del centro storico ridotte a parcheggi privati e al disprezzo generico verso i luoghi del vivere comunitario.
Troppo facile addossare la colpa ai governanti, facilita l’autoassoluzione collettiva. L’impressione è che ai soliti mali, l’incuria, il degrado, la prepotenza, il potere in mano a pochi che lo esercitano come feudo personale nella totale impunità, si è aggiunta una patina di sfacciataggine post-moderna.
La classe politica ha capito che non importa quel che c’è, non conta l’evidenza: qualunque evidenza può essere coperta da un’accorta retorica: la città tranquilla, la città delle streghe, la città dell’Unesco, la città di cultura. Tutti simulacri parolai per coprire l’imbarazzo di un flemmatico e buffo degrado.
Felice Presta