Invettiva di fine anno
Dovrei ragionare sopra le parole del sindaco di Benevento, ma perché devo soffermare l’attenzione su una rappresentazione visibile della mediocrità?
Il governo della città non è il semplice movimentare uomini e merci, piani traffico e piazze da sistemare, ma riguarda anche la testa dei suoi abitanti. Tutte le patologie arcaiche di ordinarietà e lurido familismo che già ci insidiavano, ora proliferano.
Dell’economia urbana
“Povere casse! Le vedo e le piagno e nun ze sa a chi daje la man dritta. Qualunque che ne vié, qui annamo ar bagno”. Scriveva Gioacchino Belli nel Sonetto 1496 del 31 marzo 1835. La Roma clericale e la Benevento pretesca condividono lo stesso tipo di gestione economica avvolta d’uno spirito santo senza maiuscole.
“Diseducare sperperando” è il motto da apporre sotto lo stemma cittadino. Una finzione d’economia distorta dal solito vizio: le casse municipali da scassinare per il lucro di pochi.
Dei soliti noti.
Una città rovinata dai suoi vizi antichi, prosegue allegramente verso la distruzione incivile. La fides era la fermezza della parola data, oggi la fides è rovesciata in fetida deferenza cortigiana al piccolo despota di turno. Benevento è sotto il controllo delle solite famiglie con seguito di rattutaglia nepotistica e sacra benedizione vescovile. Una consorteria parassitaria, dal linguaggio scorretto, che disprezza quelli che conservano intatta la propria libertà interiore e materiale. Il sole di Iside è di ogni camminare eretto, non adatto a loro.
SPQR/SPQB
“…Quelle so quattro lettere del cazzo che non vonno gnente compitate”.
Belli insiste nel chiedere la spiegazione a chi la sapeva: “Ecco che m’arispose don Furgenzio: “Ste lettere vonno dì, sor zomarone, soli preti qui regneno: e silenzio. A Benevento c’è la B al posto della R per correttezza d’acronimo, ma la sostanza è la stessa.
Sopra gli amministratori e la società civile.
La diseducazione politica di questa città è teatro di farse a comando, spartite ragionerie di spiate e ripicche da chi ne spera e ottiene carriere. Per professionisti omertosi, puttane redente, stampa soporifera e usurai a Benevento c’è sempre gran daffare. Un reggimento di produttori di banalità, un concentrato di codardia, sottili delatori, balbettanti dinanzi al potente al quale chiedono protezione.
Politicastri in finzione di rissa, hanno regnato con il consenso di chi adesso intona il lamento sul malgoverno. Sembrano i merli di campagna sul tetto di casa, prima litigano e, dopo mangiato, dormono tranquilli piuma a piuma.
Sotto l’Arco di Traiano, si gioca a guardie e ladri: una città evoluta a tribunale caotico di odi atavici e nocivi a tutto, ripicche e contrabbandi, tra rispettabili borghesi che si ricattano a vicenda. Machiavelli chiosava: “…si venne alla licenza, dove non si temevano né gli uomini privati né i pubblici, di qualità che vivendo ciascuno a suo modo si facevano ogni dì mille ingiurie”. Si riferiva agli italiani, beneventani inclusi.
Vincenzo B.