La battaglia di Benevento (26 febbraio 1266)
Esattamente 749 anni fa fu combattuta una delle battaglie più importanti della storia d’Italia, quella di Benevento del 26 febbraio 1266, che decretò la fine dell’influenza sveva sull’Italia e del sogno di restaurazione del Sacro Romano Impero, e l’ascesa della dinastia angioina, nonché il crescente potere del Papato sulla Penisola.
Ma andiamo con ordine, vale la pena fare un breve excursus storico sul contesto politico di quegli anni. L’episodio va inquadrato nell’ambito della lotta tra il Papato e l’Impero, rappresentato dalla casa sveva degli Hoenstaufen, che segnò parte del Medioevo.
Alla morte dell’imperatore Federico II, avvenuta il 13 dicembre 1250, al figlio Manfredi fu affidato il Regno di Sicilia, che corrispondeva all’Italia meridionale. Il papa, che a quell’epoca era Innocenzo IV, non vide di buon occhio l’acquisizione di quei territori, che riteneva di diritto spettanti alla Chiesa. Scoppiarono alcune rivolte, ma il sovrano svevo riuscì a domarle. Nel 1258 Manfredi usurpò il trono di Baviera al nipote Corradino (il quale era ancora bambino); il nuovo papa, Urbano IV, temendo un eccessivo rafforzamento di Manfredi, lo scomunicò, dichiarandolo decaduto, e chiamò in soccorso Carlo d’Angiò, conte di Provenza e fratello del re di Francia Luigi IX (alleato della Chiesa), promettendogli il trono di Sicilia. La discesa in Italia del francese fu possibile però soltanto nel 1265, quando il successore di Urbano IV, papa Clemente IV, gli assicurò il totale sostegno.
Il 14 maggio di quell’anno Carlo arrivò a Roma, ma a causa di una mancanza di risorse finanziarie, fu costretto a temporeggiare, mentre Manfredi rimase in posizione di attesa. Con il passare del tempo però, la situazione cominciò a deteriorarsi, in quanto alcuni feudatari del Regno di Sicilia, abbagliati dalle adulazioni e dalle promesse dell’angioino, cominciarono a schierarsi al fianco del nemico, così il sovrano svevo, temendo ulteriori defezioni, si convinse ad avviare le operazioni di guerra. Così Manfredi si era assestato a Capua, ma i suoi baluardi difensivi caddero piuttosto facilmente, a causa del tradimento di parte dei suoi soldati; particolarmente umiliante fu l’abbandono del ponte di Ceprano. Le truppe franco-angioine avanzavano, mentre quelle “siciliane” furono costrette a ripiegare verso Benevento, città strategicamente importante in quanto era ben collegata con la Puglia, da dove sarebbero pervenuti i maggiori rinforzi per Manfredi.
Le forze guelfe potevano disporre di un gruppo di effettivi etnicamente quasi omogeneo, composto in larga parte da francesi e da mercenari italiani; quelle ghibelline invece erano costituite da feudatari del Regno di Sicilia, tedeschi, saraceni e mercenari italiani. Per quanto riguardava il loro numero, i primi contavano 3.000 cavalieri, mentre i secondi 3.500, oltre ad alcune migliaia di arcieri.
La battaglia ebbe inizio la mattina del 26 febbraio 1266, quando Manfredi (dopo aver consultato un astrologo) diede l’ordine di attaccare per primi e di far avanzare la prima linea, formata da cavalleria leggera e arcieri saraceni, superando il ponte nei pressi del quale erano appostati; la manovra, per la verità un po’ avventata, non sortì l’effetto sperato, e fu respinta dagli angioini, che decimarono gli arcieri saraceni. Poco dopo, la cavalleria francese, beneficiando di una fase di rilassamento degli avversari, scatenò un poderoso attacco che sorprese i nemici, tra l’altro colpendoli all’altezza delle ascelle (le uniche parti del corpo scoperte della loro armatura). Manfredi ordinò alle riserve di intervenire, ma alcuni del suo schieramento tradirono. Il sovrano svevo fu colpito a morte in quei concitati momenti, insieme a pochi fedelissimi. Il suo corpo fu ritrovato soltanto tre giorni dopo sul campo di battaglia. I soldati francesi, riconobbero il cadavere, e mossi a pietà per il coraggio e il valore mostrati, lo seppellirono sotto un cumulo di pietre, sulle rive del fiume Calore, a pochi metri dal ponte nei pressi del quale si era consumata la battaglia.
Sette mesi dopo la sua morte, il vescovo di Cosenza, Bartolomeo Pignatelli (che aveva condotto le trattative per la discesa di Carlo d’Angiò in Italia), acerrimo nemico di Manfredi, con la complicità di papa Clemente IV, fece violare la tomba del re scomunicato e trasportare la sua salma, per farla nascondere nel letto del fiume Liri, nel Lazio, dopo averne fatto deviare momentaneamente il corso, fuori dai confini del Regno di Napoli.
L’importante evento del 1266 ha perfino ispirato la letteratura, basti pensare al III Canto del Purgatorio della “Divina Commedia” di Dante Alighieri (vv. 103-145) e al romanzo storico “La battaglia di Benevento” (1827) di Francesco Domenico Guerrazzi.
Crediamo sia doveroso concludere proprio con gli immortali versi del “Divin Poeta” dedicati a Manfredi e alla sua tragica fine sul campo di battaglia, resa però meno drammatica dal pentimento in punto di morte, e dal conseguente perdono di Dio:
«E un di loro incominciò: “Chiunque
tu se’, così andando, volgi ’l viso:
pon mente se di là mi vedesti unque”.
Io mi volsi ver’ lui e guardail fiso:
biondo era e bello e di gentile aspetto,
ma l’un de’ cigli un colpo avea diviso.
Quand’io mi fui umilmente disdetto
d’averlo visto mai, el disse: “Or vedi”;
e mostrommi una piaga a sommo ’l petto.
Poi sorridendo disse: “Io son Manfredi,
nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,
vadi a mia bella figlia, genitrice
de l’onor di Cicilia e d’Aragona,
e dichi ’l vero a lei, s’altro si dice.
Poscia ch’io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volontier perdona.
Orribil furon li peccati miei;
ma la bontà infinita ha sì gran braccia,
che prende ciò che si rivolge a lei.
Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia
di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,
l’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.
Or le bagna la pioggia e move il vento
di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
Per lor maladizion sì non si perde,
che non possa tornar, l’etterno amore,
mentre che la speranza ha fior del verde.
Vero è che quale in contumacia more
di Santa Chiesa, ancor ch’al fin si penta,
star li convien da questa ripa in fore,
per ognun tempo ch’elli è stato, trenta,
in sua presunzïon, se tal decreto
più corto per buon prieghi non diventa.
Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,
revelando a la mia buona Costanza
come m’ hai visto, e anco esto divieto;
ché qui per quei di là molto s’avanza”».
Francesco Pio Meola
Nelle foto una riproduzione della battaglia di Benevento del maestro Severino realizzata nel 1969 (palazzo privato Benevento)